R.I.P.

giovedì 3 giugno 2010

24: VISITA A SORPRESA


È successo che sono riuscito a riprendermi, almeno in parte. Il teletrasporto riposa inutilizzato nel salotto, non oserei riaccenderlo per nulla al mondo visto come mi sento, ma almeno ho ripreso a uscire di casa. Anzi, ho fatto di più. Ho trovato lavoro. Ho disseminato il quartiere di annunci e ora riparo elettrodomestici al vicinato. Devo dire che gli affari vanno a gonfie vele. Inoltre, mi fa bene occuparmi di cose pratiche, tenere la testa impegnata: non sono costretto a pensare a lei.
Gli unici momenti difficili sono quelli in cui mi trovo costretto in strada allo scoperto, diretto a sistemare uno scaldabagno o un fon, e il cuore comincia a battermi furiosamente al solo pensiero di poterla incontrare. Non è ancora accaduto, perché mi aggiro furtivo sfruttando le ombre degli alberi, accucciandomi dietro le auto parcheggiate, filiformandomi dietro i lampioni.
Quando viene sera, però, mi sento oppresso da un sentimento che non saprei definire, cerco mentalmente una risposta che non so darmi, e succede che resto a fissare per lunghi minuti le nuvole in cielo.
O-oh, hanno bussato alla porta… Chi sarà? Non aspetto nessuno. E se fosse lei? No, non è possibile.
Bussano ancora, più forte, mi decido e vado ad aprire.
Prima di realizzare chi o cosa ho di fronte, due braccia poderose mi ghermiscono e strizzano contro un petto e una panza enormi: “Ubaldo!”, esclama l’energumeno.
Conosco questa voce. Eccome. Non può che essere… “Giocondo?!”
“In ciccia e ossa!”, ride il mastodonte lasciandomi andare, poi entra in casa trascinando al seguito due grosse sacche da viaggio. “Non chiedermi di dirti da dove vengo e cosa ho fatto negli ultimi due anni,” dice Giocondo mollando le sacche in entrata, “perché è una storia lunghissima e ora sono troppo stanco. Devo riposare, ho camminato chilometri per raggiungere questo cazzo di quartiere dove vivi e le mie povere ginocchia gridano pietà.”
Detto questo adocchia il divano, lo raggiunge con quattro passi da elefante e lascia franare la sua enorme, sudata e barbuta massa con un tonfo. Il divano si sfonda immediatamente.
“Bella merda di divano.”, mugugna Giocondo con una smorfia; appoggia le gambacce sul tavolino e anche quello si schianta. “Insomma, è qui che ti sei sistemato?”, sbuffa il mio fratellastro guardandosi in giro, “Fa parecchio cagare.”
“A me basta e avanza.”
“Sei sempre stato un po’ sfigato, senza offesa. Dunque, Ubaldino, non sei contento di rivedermi? Hai una faccia da culo che basta e avanza.”
“Ti davamo per disperso.”
“E invece eccomi qua. Ma, scusa se insisto, lo sai che hai una cera veramente merdosa? Scommetto che sei innamorato.”
Se c’è una cosa che mi ha sempre stupito di Giocondo è che ci azzecca sempre quando vuole analizzarmi. “Ho indovinato, vero?”, insinua sorridendo. “Lo sapevo. Bè, lascia che ti dica una cosa: mi sono innamorato anche io. Stamattina, per essere precisi, in un supermercato. Ma vieni qui che ti racconto.”
Mi fa cenno di sedermi accanto a lui sul divano, come quando eravamo piccoli e lui mi iniziava, da fratellastro maggiore, ai misteri della vita, per poi costringermi in virtù di quella complicità a fare cose di cui mi sono sempre pentito.
“C’era questa donna,” racconta Giocondo sognante, “bellissima. Del colore del miele di castagno, riccioli fitti e neri, che sceglieva dei pezzi in offerta da un cestone pieno di lingerie.” Arrossiamo entrambi al pensiero del cestone. Lui continua quasi in un sussurro: “Dovevi vedere, Ubaldo, con che delicatezza tastava il tessuto di quel reggiseno tra pollice e indice per valutare se fosse buono per la sua pelle fine…”
Giocondo rimane in silenzio, rapito, poi si riscuote e dice, in lacrime: “Forse non la rivedrò più, non sentirò mai più il suo profumo, e questo pensiero mi fa impazzire.” Abbassa il capo, i capelli lunghi e unti dondolano e gli sfiorano la pancia gonfia. Singhiozza.
Lo circondo con un braccio e gli faccio forza, perché so quanto possa soffrire.
Lui rialza la testa, lo sguardo ferito ma forte, e dice: “Ma noi siamo uomini, giusto?”
Annuisco.
“Allora portarmi qualcosa da bere, ti va?”
“Ti prendo una birra.” dico alzandomi.
Vado in cucina e, mentre ficco la testa nel frigo alla ricerca di qualche birra, lo sento esclamare: “Ma che minchia di TV è mai questa?!”
“Non toccarla!”, grido. “Non è più una TV!”
Troppo tardi: odo un suono familiare, corro di là e Giocondo è sparito.